Achille Bonito Oliva

Il silenzio imparziale / 2004

L’arte contemporanea, cosi come la musica, vive tutta sotto il segno del labirinto, in quanto portatrice di una coscienza metalinguistica del proprio operare. L’arte è innanzitutto linguaggio, costruzione di una macchina rappresentativa che risponde a regole interne ed a una economia espressiva fuori da ogni rapporto di simmetria colla realtà. Nello stesso tempo il linguaggio è la realtà dell’opera. In questo senso l’orientamento non nasce dalle cose esterne: l’artista non pensa di poterle rappresentare attraverso un linguaggio posto obliquamente e non frontalmente ad esse.

La scoperta della psicoanalisi ha rafforzato tale coscienza, spingendola verso il recupero di pulsioni e perdite di senso che allargano il territorio magico dell’arte. L’opera dell’artista non è regolata da un movimento tendente ad un unico bersaglio, quello del significato, ma si dischiude verso derive aperte, verso una dinamica rispondente ad un’economia interna. L’immagine è un coagulo di direzioni, un centro di irradiazioni da cui partono infinite traiettorie, secondo orientamenti che fondano il puro movimento, un eterno ritorno di energia, un perenne slittamento. Il labirinto è la figura, la struttura adottata da Rita Ernst, un linguaggio per eludere la necessità del significato, l’abitudine logocentrica della ragione occidentale di trovare sempre una motivazione, una risposta, seppure travestita ed arricchita dal decoro dell’immagine, alle urgenze dell’immaginario. L’artista ha avvertito tale impossibilità ed ha adottato la strategia dell’esitazione, in cui salta il valore del progetto, a favore di un puro errare della fantasia. All’economia dell’accumulo finalizzato da una direzione, l’arte oppone un’altra economia, quella dello spreco, di un puro movimento fuori dalla logica dell’approdo, impossibile anche per la trama di una pittura strutturata.

L’artista avverte l’ineluttabilità delle domande primarie ed anche lo spazio contratto tra la domanda e la risposta che l’arte può dare, fino al punto che l’intera opera corrisponde al puro interrogare e l’interrogazione corrisponde al movimento mitico dell’esistenza. Il mitoma e la concentrazione biologica, l’unita irresistibile sotto cui è non possibile scogliere alcun nodo. Cosi la pittura diventa maniera e misura di oscillare tra la presenza de la domanda e l’assenza della risposta. Un’opera motivata assolutamente dalla propria stesura che non chiede alcuna omologazione dall’esterno. Il superamento dell’uso metaforico del linguaggio nasce proprio dall’affidamento che l’artista fa del proprio destino alla concretezza dei segni tracciati. Perché la metafora sarebbe ancora uno strumento di rappresentazione che non corrisponde alla situazione di incastro in cui l’artista versa con l’opera e con il linguaggio necessario alla sua formulazione. Essa pareggia e detiene per sé l’interrogazione e l’atto del vivere, in cui la domanda diventa il gesto del vivere stesso e l’opera la continuità del gesto. Il procedimento metonimico è la possibilità che Rita Ernst, artista svizzera, sia presente a se stessa e non sfugga lungo la tangente del significato. Perché la domanda primaria risulta fondata fuori dalla contingenza del quotidiano ed è essa stessa in agguato ad interrogare l’artista. La domanda riguarda il ciclo antropologico della vita che ineluttabilmente ricorre con le sue tappe e i suoi termini definitivi. Cosi la pittura appare come un respiro all’infinito orizzontale, dentro cui si compiono gli eventi della nascita e della morte. E la morte non è anteriore, appartenente soltanto al ciclo dell’umanità, ma consegnata nel destino chiuso dell’opera.

Se, con Blanchot, la scrittura sospende il morire, questo vuol dire che l’opera sospende l’istante e l’irreversibilità del tempo. I segni tracciati non muovono altri significati oltre la motivazione di queste istanze, le quali non attendono uno scioglimento ma si costituiscono solamente nella posizione evidente dei segni. Allora l’opera non differisce alcuna soluzione, per il fatto che non esiste soluzione, ma estende il procedimento della vita, il movimento, ed il destino del linguaggio, la sospensione al sistema del linguaggio. L’incorporamento di questa ineluttabilità dà all’opera il potere tautologico di presentarsi non ad immagine e simulazione, ma a chiusa realtà. Rita Ernst, artista europea, traccia, i suoi segni, che ripropongono ostinatamente la propria cifra in completa evidenza, senza mistero se non quello della propria splendente presenza.

Segni che non emergono dai linguaggi della comunicazione quotidiane, ma si costituiscono autonomamente affiorando alla forma non come tentativo di rassomigliare il mondo, ma come atteggiamento di totalità e autosignificazione. La totalità deriva dalla struttura stessa del segno che contiene in sé tutte le forme più germinali. Rita Ernst si affida all’epifania dell’opera che non occupa soltanto lo spazio della conoscenza, in quanto il procedimento creativo non tende a porsi come movimento verso una possibile risposta, ma come affermazione di un puro interrogare. L’opera semmai occupa lo spazio della distanza intercorrente tra una domanda ed un’altra. Un’erranza assoluta, che governa il movimento del linguaggio e l’artista ne assume le modalità, avendo abbandonato ogni orientamento che potesse guidarne i passi. Caduta ogni utopia e superstizione, l’arte pratica il labirinto non come metafora, ma come metonimico movimento del linguaggio stesso.

La Ernst dunque non interroga la storia ma la natura antropologica del linguaggio, per questo domanda non è mai interlocutoria bensì si definisce come atto dell’interrogare. Il segno si costituisce anch’esso ad entità concreta e separata con le stesse connotazione della ripetizione, che scorre lungo l’irreversibilità del movimento temporale. Le percezioni che accompagnano la vita consentono all’artista di recuperare, nel proprio atteggiamento fantastico, il rapporto ripetitivo e constante con il mondo esterno.

Achille Bonito Oliva *1939 in Caggiano, I, ist Kunsthistoriker, Kunstkritiker und Autor